SLIPKNOT: Verso nuovi orizzonti

Slipknot – The End, So Far

SLIPKNOT – “The End, So Far”
• (2022 – Roadrunner Records) •

I nove dell’Iowa tornano a distanza di soli tre anni dall’ultimo acclamato lavoro “We Are Not Your Kind” con un nuovo platter che marcherà la fine di un’era per il gruppo di Des Moines, dato che il contratto con la Roadrunner Records che li ha legati dal 1999 e per sette dischi è stato finalmente adempiuto, permettendo agli Slipknot di voltare pagina e trovare altre soluzioni da quel punto di vista.

Ma veniamo al dunque: seguire un disco come il precedente “We Are Not Your Kind” non è per nulla facile dato il grande riscontro che quest’ultimo ha avuto con la maggior parte dei fan, e le premesse di Corey Taylor circa un anno fa quando il nuovo lavoro era in fase di composizione faceva trapelare del grande ottimismo da parte del frontman che ha più volte ribadito quanto i fan ”rimarranno sbigottiti da alcune soluzioni sonore a cui stiamo lavorando per questa nuova release targata 2022”.

In effetti non si può dire che abbia torto; se i fan chiedevano a gran voce un nuovo “Slipknot” o “Iowa” la band di Des Moines ha tirato fuori un lavoro totalmente diverso, che dovendo essere onesti non ricorda nessuno dei loro precedenti album in particolar modo, avendo esso stesso un’identità propria e molto forte.

Sicuramente alcuni richiami importanti all’ultimo corso della band ci sono eccome in alcuni dei pezzi più diretti come “Chapeltown Rag”, “The Dying Song”, “H377” o “Hive Mind” ma il disco nella sua integrità offre un approccio nuovo, più melodico e allo stesso tempo estremamente più vario e sperimentale dei precedenti album.

Ci sono difatti al suo interno una serie di soluzioni sonore davvero inaspettate per gli Slipknot, come l’uso di orchestrazioni, che rendono alcuni pezzi piuttosto unici nel loro repertorio e la sensazione è davvero che questo disco offra tantissima carne al fuoco e che ancora più degli album precedenti avrà bisogno di tempo per essere metabolizzato e assimilato persino dai fan più devoti come il sottoscritto.

L’impressione è che ogni brano dell’album porti veramente un aspetto nuovo al sound del disco senza che esso appaia quindi ripetitivo in alcun modo come accadeva troppo spesso in “The Gray Chapter” per esempio.

The End, So Far” è allo stesso tempo un disco in cui tantissimi dei membri della band hanno il loro momenti di gloria, su tutti Sid Wilson; i suoi “scratch” e le influenze hip-hop in questo album sono uno dei pilastri delle composizioni e non si può non notare come lui stesso insieme a Craig Jones con le sue tastiere, orchestrazioni e campionamenti  siano l’anima sperimentale di questo album.

Le chitarre di Jim Root e Mick Thompson sono come sempre monumentali e dei macina riff incessanti anche se lasciano spesso e volentieri qualche spiraglio ai loro compagni. Jay Weinberg si conferma come un degno successore di Joey Jordison, offrendoci come al solito un drumming creativo e ispirato, pregno di aggressività ma anche di fill davvero interessanti, mentre il basso del nuovo arrivato “Tortilla Man” stavolta, specialmente in alcuni brani, è estremamente più presente nel mix, offrendo un nuovo e importante elemento nella musica degli Slipknot che forse nei precedenti dischi era un pochino relegato alle retrovie.

Corey Taylor è il solito grande frontman- non avrà più per chi scrive la potenza e la rabbia viscerale degli scream di “Iowa” o del disco di debutto ma probabilmente, per quanto riguarda questo “The End, So Far”, non ce ne sentiva nemmeno eccessivamente il bisogno. La sua voce appare più secca e meno ruggente e brutale rispetto al primo periodo della band, ma riesce comunque ad inanellare una serie di vocals velocissime ed intense come succede in “H377” probabilmente il mio brano preferito dell’album e anche il più pesante e viscerale, mentre la sua voce pulita è sempre emozionante e varia.

“The End, So Far” è un disco che farà discutere e dividerà la fanbase come sta già facendo d’altronde in questi ultimi giorni sui vari canali social del gruppo e su Youtube. Non può essere altrimenti se si pensa per esempio, già ad un opener come “Adderall” che mi ricorda parecchio come idea una “Prelude 3.0” da “Volume 3: The Subliminal Verses”.

Un primo pezzo che è una via di mezzo tra un intro track e un pezzo completo e a se stante e che funziona volendo in entrambi i modi se non fosse per l’andamento molto melodico e inusuale per un disco dei nove; cori, pianoforte, chitarra acustica, voce dolce e melodica di Taylor- senz’altro un inizio che non ti aspetti che al primo ascolto mi ha piuttosto spiazzato, ma che mi ha convinto decisamente di più con i successivi. Già da questo pezzo si possono evidenziare i cambiamenti per quanto riguarda il mixaggio degli strumenti di cui parlavo prima con il basso più in primo piano.

“The Dying Song (Time To Sing)” e “The Chapeltown Rag” le conosciamo già piuttosto bene essendo uscite da qualche tempo e sono entrambi pezzi piuttosto tipici nel repertorio della band risultando facilmente accostabili al proprio recente passato ( “Gray Chapter” e “We Are Not Your Kind”). L’approccio più “catchy” di “The Dying Song” si contrappone al lato più sperimentale di “Chapeltown Rag” ma entrambe funzionano alla grande e rimangono due ottimi pezzi.

“Yen” è una semi-ballad dal sapore dark che mi ha ricordato un pochino una via di mezzo tra “Snuff” e “Killpop” senza probabilmente toccare gli stessi livelli qualitativi. Nello stesso modo di “Killpop” il pezzo si scatena sul ritornello per riprendere le sue tinte dark nella strofa. Anche qui tantissimi scratch da parte di Sid Wilson nel finale, per un brano interessante che però non posso dire di amare follemente.

“Hive Mind” è uno dei pezzi bomba di questo nuovo album per la sua furia, la sua ricchezza compositiva e la varietà musicale del pezzo. Va dato atto a Mick Thompson e Jim Root di aver tirato fuori dei riff e delle linee di chitarra memorabili. Taylor suona furioso come non mai ma anche convincente nelle parti più melodiche e Jay Weinberg è un batterista che in questo pezzo con la sua fantasia fa veramente la differenza. Il twist sul finale del brano è davvero sorprendente e drammatico e una chiusura perfetta per una composizione di notevolissima fattura.

“Warranty” è un altro brano che segue la vena aggressiva del precedente, con dei break-down travolgenti per l’ennesimo pezzo ricchissimo di soluzioni sonore intriganti e variegate. È da segnalare nella sezione finale un’apertura melodica (quasi gotica) con delle orchestrazioni davvero sublimi fino ad arrivare alla risata beffarda di Taylor negli ultimi secondi, ripresa più volte e messa in loop. Altro gran pezzo.

“Medicine For The Dead” ha un retrogusto più melodico e quasi “Stone Sour”, se si esclude il massiccio uso di “scratch” e di effetti, ma a conti fatti è un pezzo che alterna molto bene delle parti aggressive con un ritornello davvero “catchy”. Dei suoni di tastiera sul finale ad effetto Carillon e una sezione improvvisamente estremamente violenta rendono questo brano ancora una volta assolutamente ben riuscito.

“Acidic” porta con se ancora una volta delle soluzioni sonore completamente diverse ed estranee da quanto abbiamo sentito fin ora nel platter; si tratta di un pezzo che riprende in parte un sound oscuro e misterioso accompagnato da delle chitarre quasi grunge che si sposerebbero bene con quanto fatto dagli Alice In Chains o dai Soundgarden negli anni 90’. 

Anche l’assolo di chitarra più minimale rientra perfettamente in quello stile ma il pezzo sa essere allo stesso tempo molto aggressivo e a tratti disturbante. Debbo dire che alcuni elementi e il feeling generale di questo brano mi ha ricordato un pochino quello di “Gehenna” da “All Hope Is Gone” anche se l’esecuzione e la costruzione del pezzo sono completamente diversi.

Ancora una volta gli Slipknot non vogliono accontentarsi di riproporci lo stesso pezzo ogni volta ma sembrano dediti nella missione di portare all’ascoltatore qualcosa di nuovo ad affascinante con ogni brano.

Sid Wilson impazzisce sul giradischi sull’apertura di “Heirloom” che appare davvero come un pezzo degli Stone Sour in tutto e per tutto se non fosse per gli elementi sperimentali tipici degli Slipknot.  Nessun problema perché anche qui parliamo di un brano ottimamente composto.

La successiva “H377” per quanto mi riguarda è il vero gioiellino del disco con un Taylor entusiasmante che sputa fuori parole a raffica donando al pezzo un’intensità ed un impatto raramente visti prima in questo platter e dimostrandosi ancora una volta in grandissima forma vocale nonostante gli anni che passano. Davvero una performance stellare da parte del vocalist che non vedevo tirare fuori delle rime a raffica così dai tempi di “Liberate” del primo omonimo album.

“De Sade” e “Finale” chiudono il lavoro in maniera sorprendente, soprattutto per quanto riguarda quest’ultimo, melodico e orchestrale ma allo stesso tempo minimale, quasi a volersi ricollegare al brano di apertura “Adderall”. Riappaiono i layers vocali e i cori dal sapore gotico presenti già in uno dei brani precedenti mentre il lavoro chitarristico è più collegabile con l’alternative rock degli anni 90’/2000 che col metal. Un “Gran Finale” a tutti gli effetti.

In conclusione “The End, So Far” è un disco che dividerà e continuerà a dividere per anni i fan della band. Non si può negare però come gli Slipknot con questo disco abbiano tirato fuori forse il lavoro più sperimentale e artistico della loro carriera e di quanto questo platter sia il frutto di una band in continua evoluzione.

Ogni pezzo ci offre qualcosa di unico e a se stante, per un lavoro estremamente variegato, con un enorme quantità di carne al fuoco, tanto che ci vorranno più e più ascolti per metabolizzare il tutto. “The End, So Far” è un disco sicuramente in linea generale più melodico rispetto ai precedenti ma che allo stesso tempo presenta una manciata di pezzi che davvero non potranno non esaltare anche i fan più restii al cambiamento e che ancora non accettano la svolta leggermente più “melodica” del dopo Iowa.

L’album è davvero un’entità a se stante e non collegabile a molto altro che la band di Des Moines abbia composto nella propria ormai leggendaria carriera. Eppure il marchio e il sound del gruppo difficilmente potrà essere confuso ne emulato da nessuno.

Anche questo è l’emblema della classe degli Slipknot in un mondo dove sin troppi gruppi tendono a suonare tutti uguali gli uni con gli altri. Per quanto mi riguarda un felicissimo, coraggioso e sorprendente ritorno.

VOTO: 8/10

TRACKLIST:

  1. Adderrall
  2. The Dying Song (Time To Sing)
  3. The Chapeltown Rag
  4. Yen
  5. Hive Mind
  6. Warranty
  7. Medicine For The Dead
  8. Acidic
  9. Heirloom
  10. H377
  11. De Sade
  12. Finale

Slipknot line up:

  • Corey Taylor – Vocals
  • Jim Root – Guitars
  • Mick Thompson – Guitars
  • Alessandro Venturella – Bass
  • Sid Wilson- Turntables
  • Craig Jones- Keyboards, Samples, Media
  • Shawn “Clown” Crahan – Percussions, backing vocals
  • Michael Pfaff – Percussions, backing vocals
  • Jay Weinberg – Drums