OPETH – Un’innovazione che compie vent’anni


OPETH – “Blackwater Park”
• (2001 – Music For Nations) •

Vent’anni fa “Blackwater Park” scosse il mondo metal e mise sulla mappa mondiale per la prima volta il four-piece svedese che diventò poi un’istituzione negli anni a venire. Non che la band di Akerfeldt fosse nuova al mondo della musica, ma per una serie di circostanze tra cui la negligenza e la poca promozione da parte delle etichette discografiche, gli Opeth rimasero fino ad allora una band di nicchia pur avendo già partorito capolavori assoluti quali “Still Life” o “My Arms, Your Hearse”, che vennero poi riscoperti e osannati dalla comunità metal dopo l’esplosione di “Blackwater Park”. Devo premettere che recensire un album di tale portata e influenza su cui si è già detto di tutto e di più non è per nulla facile senza scadere nel banale o nel già sentito ma il mio amore per il suddetto disco non mi permette di soprassedere. Devo iniziare col dire che non sono molti gli album che possono vantare l’impatto e l’importanza di un disco del genere nel mondo della musica anche se bisogna essere onesti nel riconoscere che la concezione di “Progressive Death Metal” esisteva già ed era già stata sperimentata dagli stessi Opeth nei loro quattro album precedenti oltre che da band come i Cynic all’inizio degli anni 90’. Eppure “Blackwater Park” è stato un perfezionamento di quanto già sentito come se il prog-death fosse entrato per la prima volta sulla bocca di tutti e la miriade di musicisti che sono stati influenzati direttamente da questo platter in effetti non si contano. In un periodo come quelli dell’inizio degli anni 2000 dove il metal continuava a mutare e a sperimentare verso nuove direzioni “Blackwater Park” perfezionò in molti aspetti il trademark sound degli Opeth sia a livello del songwriting che dal punto di vista della produzione dove il tocco magico di Steven Wilson forgiò un amicizia con il buon Akerfeldt che dura fino ai giorni nostri.  L’album fu anche il terzo che si avvalse della line-up che molti fan degli Opeth considerano come quella classica ossia con la parte rimica della band costituita da Martin Méndez (basso) e Martin Lopez (batteria), Peter Lindgren alla prima chitarra e Mikael Akerfeldt (voce e chitarra). Proprio Mikael in questo album da l’impressione di fare un ennesimo passo avanti dal punto di vista vocale, soprattutto per quanto riguarda il growl diventato cupo e minaccioso come pochi altri e lasciandosi alle spalle l’impronta ancora grezza di album quali “Orchid” o “Morningrise”. La testimonianza di questo gli Opeth ce la schiaffano subito in faccia nel primo pezzo “The Leper Affinity”, un magistrale monumento di brutalità e oscurità dove la dualità offerta nella maggior parte delle tracce del disco viene quasi a mancare a fronte di un assalto sonoro che lascia pochi sprazzi di calma all’ascoltatore.

“We enter winter once again
naked,  freezing from by breath
‘neath the lid, all limbs tucked away
this coffin is your abode from now and onwards”

il gelo ci assale, i malsani e ossessivi riferimenti alla morte sono forse il vero e proprio collegamento con il death metal primogenito che gli Opeth hanno reso così sofisticato ma che rimanda, almeno nei testi, a quel mondo musicale verso cui la band è fortemente debitrice. I testi di Blackwater Park sono infatti un pugno allo stomaco perché trattano argomenti così difficilmente digeribili, eppure lo riescono a fare con un tocco di poesia innata e in molti casi risultano essere volutamente enigmatici e metaforici. “The Leper Affinity” è il primo capolavoro di un disco dove ogni brano risulta essere una successione di piccole opere d’arte fatte di brutalità e oscurità, ma anche di cambi di tempo, ritmiche complesse e momenti eterei e sognanti.; il pianoforte sul finale di “The Leper Affinity” ne è un esempio lampante e ci conduce all’incredibile “Bleak” uno dei momenti più splendenti in un disco già spendente di suo. Qui la dualità luce/ombra/ chiaro/scuro si fa più evidente quando alla brutalità della strofa così sinistra e opprimente si contrappone la voce in pulito di Akerfeldt nel chorus che risplende di una bellezza disarmante, mentre il finale del pezzo è un nuovo assalto sonoro con un azzeccatissimo rumore di statica negli ultimi secondi che ci portano direttamente a “Harvest”, l’unico brano del lotto ad essere totalmente acustico (fatta eccezione per l’intermezzo “Pattern In The Ivy”). “Harvest” è il momento di calma in cui la chitarra acustica e le clean vocals di Akerfeldt la fanno da padrona come fu per le precedenti “Face Of Melinda” e “To Bid You Farewell” e ci preparano con l’ennesimo brano meraviglioso ad un altro momento cardine del disco, per quanto mi riguarda forse il momento più alto in assoluto della carriera della band Svedese ossia quella “The Drapery Falls” che nei suo connubio tra momenti squisitamente pinkfloydiani, atmosfere eteree, sfuriate death metal, progressioni musicali e una poesia innata nei testi ci fa letteralmente toccare il cielo con un dito.

“Spiraling into the ground below,
like autumn leaves in the wake to fade away…
waking up to your sound again
and lapse into the ways of misery”

“The Drapery Falls” rappresenta in tutto e per tutto il perfetto esempio della dualità della musica degli Opeth. “Dirge For November” è invece un pezzo atipico, che nei suoi primi due minuti si mantiene acustico ed estremamente malinconico per poi esplodere nei successivi sei minuti per un brano che gioca tantissimo sulle atmosfere plumbee senza scordarsi di impreziosire il proprio sound con degli assoli di natura squisitamente melodica e di offrirci anche qui dei cambi di tempo degni di nota. La successiva “The Funeral Portrait” al contrario del brano precedente gioca più sull’impatto con dei riff davvero carichi di groove e tra i meglio riusciti dell’intero disco per un brano trascinante e incredibilmente ispirato che forse sarà il meno noto del lavoro ma che non per questo merita di rimanere in secondo piano rispetto agli altri. L’intermezzo strumentale “Patterns In The Ivy” rappresenta la quiete prima della tempesta che prende il nome dal disco stesso, “Blackwater Park”; dal punto di vista strettamente lirico questa epopea di tredici minuti condensa il meglio che la band ha potuto offrire in questo album e lo fa in maniera strettamente metaforica trasportandoci in quello che sembra essere un villaggio dove il malessere, il peccato, il vizio e la morte si sono impossessati degli abitanti contaminando tutto ciò che li circonda. Ogni speranza è vana, l’orrore, la morte e qualsiasi perversione umana sono concentrati in questo piccolo mondo inevitabilmente portato verso la rovina:

“Lepers coiled ‘neath the trees
dying men in bewildered soliloquys,
perversions bloom round the bend
seekers, lost their quest
ghost of friends frolic under the waning moon”

Il narratore osserva questo mondo andare in rovina essendo però lui estraneo a ciò che sta succedendo, uno spettatore noncurante che giudica una visione di cui non si sente parte integrante (“I am just a spectator, an advocate documenting the loss”). Spiegato in modo più diretto e letterale, lo spettatore rinnega gli atti immorali della vita moderna finché anche lui irrimediabilmente viene risucchiato in questo vortice di male. “Blackwater Park” è una metafora della società moderna vista da un punto di vista estremamente negativo e distruttivo e mostrando come l’essere umano sia tendenzialmente portato all’autodistruzione e finisca per trascinare via con se anche tutto ciò che è ancora puro e incontaminato, come accade con il narratore della storia. Trovo molto interessante questa trasposizione di questo luogo dove tutto il male che esiste nel mondo viene concentrato in esso come se fosse una specie di “Silent Hill” se vogliamo fare il paragone con una celebre serie videoludica ed è anche interessante notare come tutti i macabri riferimenti trovati nelle tracce che precedono la title-track siano come un preludio di quello che verrà presentato nel brano finale dove i “peccati” trovano una loro dimora terrena, in un luogo senza speranza immaginato dalla mente di Akerfeldt in cui il male è così radicato che anche l’acqua dei fiumi e dei laghi si tinge di nero (da qui “Blackwater” appunto) a simboleggiare l’assenza di qualsiasi barlume di luce. Risulta quindi il platter in questione essere una specie di concept album? Probabilmente sì, in ogni caso, se a livello prettamente lirico il brano è ispirato, musicalmente lo è ancora di più viaggiando su dei territori che riflettono pienamente il concept attorno a cui ruota il pezzo che suona  malvagio, oscuro e pesante e dove il growl la fa completamente da padrona raggiungendo il climax in uno dei finali più memorabili e intensi mai ascoltati in un disco musicale.

“The sun sets forever over Blackwater Park”

Con questa frase il nostro viaggio si chiude. Il sole tramonta per sempre su “Blackwater Park” e il suo mondo di perdizione, ma una volta finito l’ascolto ciò che lascia questo album non si cancella. La sensazione di aver ascoltato uno dei dischi più riusciti e ispirati degli ultimi vent’anni non si può negare, così come non si può negare l’influenza che questo platter ha avuto sulla scena metal negli anni a venire mettendo oltretutto d’accordo fan del metal estremo, del prog metal e del prog rock nell’acclamazione definitiva di questo immenso lavoro. Essenziale.

VOTO: 10/10

Tracklist:

  1. The Leper Affinity
  2. Bleak
  3. Harvest
  4. The Drapery Falls
  5. Dirge For November
  6. The Funeral Portrait
  7. Patterns In The Ivy
  8. Blackwater Park

Opeth lineup:

  • Mikael Akerfeldt – Vocals, Guitars
  • Peter Lindgren – Guitars
  • Martin Méndez – Bass
  • Martin Lopez – Drums