KALEDON: INTERVISTA ESCLUSIVA AL CANTANTE MICHELE GUAITOLI •
Il nuovo ed eclettico cantante dei Kaledon, Michele Guaitoli, racconta a Metalrock il suo percorso artistico che lo ha portato ad approdare in questa apprezzata e consolidata realtà power metal. Una vita per la musica, raccontata direttamente dalle parole di chi la vive a pieno ogni giorno in tutte le sue sfaccettature, tra insegnamenti, canto, registrazioni, concerti e scrittura di canzoni.
Il tuo primo concerto con i Kaledon al Traffic Live Club. Si apre una nuova avventura all’interno di una band che negli anni ha acquisito prestigio nell’ambiente e che avrà ancora tanto da dire. Com’è nata questa collaborazione?
Il nome Kaledon lo conoscevo piuttosto poco, prima della proposta fattami da Alex Mele. Avevo visto qualche video della band online e sapevo che avevano figurato come opener per i Rhapsody nella loro ultima tournée. Ricordo bene che pochi mesi prima del “contatto” tra noi, lessi online dell’abbandono del loro frontman e che erano alla ricerca di un nuovo vocalist. Vuoi per i miei molti impegni, vuoi per la distanza, sul momento pensai “figuriamoci, da Roma a Gorizia”. Qualche mese dopo quell’annuncio, con molta sorpresa, Alex mi scrisse tramite un messaggio facebook, dicendomi che gli era stato consigliato di contattarmi perché potevo calzare per il ruolo che stavano cercando. Ho fatto i miei dovuti ragionamenti, abbiamo riflettuto assieme sui progetti, le situazioni da sviluppare e sulla possibile convivenza tra una band con cinque sesti a Roma e un elemento che vive da un’altra parte dell’Italia. Spronati soprattutto da un incredibile feeling trovato subito, abbiamo deciso di fare una prova e poi di lanciarci in quest’avventura ufficialmente. C’è da dire che dopo questi primi mesi, da entrambe le parti, la soddisfazione è stata totale. La band che ho incontrato è un gruppo che ha la mia stessa mentalità, il mio spirito di sacrificio, la mia ambizione, la mia voglia di musica e di lasciare qualcosa. Credo proprio che il mio entusiasmo e il mio modo di lavorare abbiano dato lo stesso senso di completezza anche dall’altra parte.
Langhe Rock Festival con gli Overtures e poi al Traffic Club di Roma per la prima con i Kaledon, entrambi eventi importanti con molta affluenza di pubblico. Come hai vissuto queste esperienze musicalmente e umanamente? Quali sensazioni hai provato nel fare concerti come frontman di due band?
I Kaledon sono la mia “prima seconda band”. Gli Overtures sono, e sembra assurdo scriverlo, la mia prima band. Ho iniziato a cantare con loro, ho avuto diverse cover e tribute durante il mio cammino artistico. Ho cantato da solista, in coro, con orchestre, come ospite, come corista, ma non ho mai avuto un “secondo progetto originale” stabile. Malgrado le molte offerte che mi sono arrivate negli anni, non ho mai accettato, proprio perché mentre il mio percorso con gli Overtures è sempre stato una crescita costante, artistica, stilistica, di tecnica e di impegno, ho vissuto e continuo a vivere situazioni e sensazioni che mi fanno capire cosa realmente significa “sudare” e “amare” la propria musica. Tutte le altre proposte mi hanno sempre lasciato un senso di incompletezza che non mi ha mai portato ad accettare, perché per un motivo o per l’altro, mancava sempre il sentirsi a casa: quando i giochi si sarebbero fatti più importanti (impegni come tour, date estere etc. etc.) qualcosa o qualcuno avrebbe affrontato amatorialmente la situazione, il progetto era mirato a restare nella scena locale o mancava il senso di sacrificio che al giorno d’oggi per un musicista è fondamentale. I Kaledon mi hanno dato fin da subito l’impressione di una determinazione fortissima, capace di superare ostacoli, distanze, problemi che tutto sommato stanno affrontando dal 1998, quindi da quasi 20 anni. Questo cambio di line-up è stato solo l’ultimo dei tanti problemi, che malgrado tutto sono stati sempre superati. Sono una band che ha voglia di dire la sua, che non ha età e non ha paure, sempre pronta a migliorarsi e alla ricerca di una crescita, disposta a tanto pur di potersi esprimere. Insomma, è stata davvero la prima volta che ho ritrovato la sensazione di casa che solo gli Overtures mi avevano dato fino ad ora. Penso che chi “vive davvero” la vita di una band sappia bene a cosa mi riferisco. Tante volte capita di vedere on stage un gruppo veramente affiatato, dove tutti gli elementi sembrano fratelli, non solo “colleghi”. Quando si ha quella sensazione: salire sul palco poi è un gioco da ragazzi… o quasi! A Langhe c’è stata una grandissima affluenza. Il festival è stato organizzato in maniera impeccabile e il pubblico ha risposto divinamente. E’ stato il mio primo concerto con gli “Overtures da Kaledon”, ma in realtà l’ho vissuto più come l’ennesima esperienza stupenda. Quando salgo sul palco con loro ormai è davvero come liberare la mente da tutto e da tutti. Non mi sono sentito assolutamente il peso della responsabilità di essere un frontman con una doppia identità, così come con i Kaledon non mi sono sentito per un istante con il peso della responsabilità degli Overtures! Sono due realtà ben differenti. Tuttavia, ammetto che il meccanismo strarodato che mi libera la mente dalla formazione Goriziana… è venuto a mancare, in senso buono, nell’esordio live coi Kaledon. E’ stata decisamente un’emozione nuova, inaspettata. Era la prima e per quanto lo volessi, la testa ancora non era sgombra. I pezzi degli Overtures sono brani che scrivo al 90% io, testi miei, canzoni che ho composto e canto da una vita. On stage coi Kaledon, mi sono ritrovato a cantare per la prima volta brani non scritti da me, ma nemmeno “cover”. Per me era importantissimo eseguire i brani in maniera ottimale, esprimere quello che io vivevo in parole e musiche altrui, con un pubblico che però mi vede ora come elemento della band, non come un cantante che fa le cover dei Kaledon. Chiaramente questo mi ha portato in un mondo che forse come è stato anche giustamente annotato nel report di Metalrock, è stato fin troppo mio. Ho vissuto i pezzi al punto da viverli in maniera totale, perdendo un po’ il contatto con la realtà e con il mio ruolo di frontman che con gli Overtures è invece qualcosa di inevitabilmente più diretto. Tutte cose che col tempo, quando nasceranno i “miei” brani dei Kaledon nei prossimi dischi e man mano che sentirò di più i pezzi a suon di esecuzioni, andranno svanendo, ma che ad oggi mi danno una marea di sensazioni nuove!
Sarai in due brani, “Holy Water” e “Into The Fog”, contenuti nel remake che uscirà il 21 agosto 2015. In che modo ti poni rispetto al sound? Quali input vorresti apportare come cantante?
Esatto, abbiamo ri-registrato due pezzi di “Chapter 4” per la sua riedizione. E’ stata un’ottima occasione per far sentire per la prima volta quello che io e Paolo Campitelli abbiamo apportato a queste versioni rinnovate e al nuovo sound dei Kaledon. Ho vissuto questi brani come qualcosa di totalmente diverso dai miei standard. Quando mi è stato proposto il progetto ho messo in chiaro fin da subito che avrei probabilmente cambiato delle linee melodiche e delle metriche, elaborato delle armonie vocali. Alla fine, mi sono ritrovato persino a cambiare alcune sezioni di testo rispetto alle versioni originali! Sono fermamente convinto che nella vita si debbano prendere delle posizioni nel bene e nel male, portando avanti i propri ideali, credendoci fermamente e senza la paura di esprimere le proprie idee. Io ho la mia visione della musica che negli Overtures si mostra in una forma che posso controllare, mutare, trasformare sotto praticamente tutti gli aspetti. Marco e gli altri, scherzando, mi danno del dittatore, ma più e più volte si sono dimostrati ben più che felici di questo atteggiamento. Nei Kaledon la mia forma espressiva ha fin da subito avuto libertà. Alex, che come ben sai è il compositore principale dei brani, mi ha praticamente lasciato carta bianca, dimostrandomi una grande fiducia. Lo stesso ha fatto con Paolo per le parti di tastiera… con delle aspettative che abbiamo abbondantemente soddisfatto. La sensazione è che ognuno di noi abbia un ruolo, conosca bene il suo compito e lo debba sviluppare nel suo contesto, sapendo la strada da percorrere e qual è l’aspettativa degli altri 5. Inutile dire che per me si è rivelato una sorta di terreno fertile in cui poter vivere un nuovo mondo. Quello che per me conta davvero quindi è mantenere la mia personalità e nel contempo rispettare stilisticamente quello che è la storia e la direzione dei Kaledon. L’unico vero obiettivo prefissato (non mi piace molto mettere dei punti prima di una registrazione o composizione, voglio che la musica emerga e si “crei” per quello che è destinata ad essere) è quello che mi porrò sempre, ossia cercare di restare al passo coi tempi. Nessun genere è morto davvero, se da un lato lo spirito rimane quello genuino e dall’altro non ci si tira indietro di fronte alla cultura moderna. Oggi anche il power metal può vivere di aria nuova se tutti gli elementi della band sono in grado di dare i giusti colori ed il giusto sound alle proprie creazioni. Questo “svecchiamento” di “Holy Water” e “Into the Fog” sono l’incipit di un processo che dal prossimo disco, non appena ci metteremo al lavoro, dovrà iniziare già nella fase compositiva.
In che modo il remissaggio di Paolo Campitelli (tastierista dei Kaledon) ha influenzato la parte vocale di “Holy Water” e “The Fog”?
Paolo mi ha lasciato stupito in maniera incredibilmente positiva per quanto concerne il mix delle parti vocali! Già dalla prima demo realizzata con gli Overtures, nel lontano 2003, io non ho mai affidato il mixaggio delle mie tracce a nessuno. Nel 2003, infatti, dopo la mia primissima incisione, ho voluto cambiare studio e re-incidere le parti prima di pubblicare la demo, perché già quella volta rimasi insoddisfatto del risultato. Dopo quell’esperienza, che al tempo fu anche una spesa importante considerando la mia età. Capii subito che se volevo davvero il controllo totale del mio sound in studio, dovevo imparare a gestire da solo questo aspetto. Fu così che iniziai la mia attività in sala di incisione, che col tempo mi portò ad aprire il mio piccolo studio, ora situato alla The Groove Factory Music Academy di Udine. Inizialmente dissi subito a Paolo che volevo curare io l’inserimento delle tracce vocali nelle registrazioni, perché sapevo bene che tipo di trattamenti andavano fatti. Fatta la registrazione, che comunque vista la distanza e le mie possibilità, ho fatto nel mio studio a Udine e non a Roma, lui mi chiese comunque anche le tracce pulite oltre a quelle già rifinite. Qualche giorno dopo mi passò dei bounce dei due pezzi: la realtà è che il lavoro dal punto di vista del sound vocale era davvero meraviglioso. Paolo ha avuto un grandissimo gusto nella scelta degli effetti. Ha svolto un lavoro di compressione ottimo e ha ritoccato leggermente l’equalizzazione che gli avevo praticamente obbligato ad inserire. Tra l’altro sono state gestite in maniera fantastica anche le armonie vocali e i cori che ho realizzato, per cui tanto di cappello al suo lavoro che ha decisamente valorizzato le esecuzioni, e non solo le mie!
Altri gruppi in cui militi attualmente sono i Future Is Tomorrow e gli Overtures. I due progetti influenzeranno musicalmente anche il tuo nuovo percorso musicale?
I Future is Tomorrow sono un progetto un po’ particolare che ad oggi mi sento di definire più uno studio-project che una band in cui milito. Abbiamo un chitarrista in Arabia Saudita e non esiste un bassista, ma il lavoro che facciamo con i FiT è tremendamente atipico. Il compositore principale è Michael Snidaro, e l’affascinante realtà di questa band è che Michael scrive pezzi per orchestra, non per band metal. Quelli che di norma sono gli “arrangiamenti” orchestrali, qui diventano la base fondamentale dei brani e della base compositiva standard, qui diventa un arrangiamento. Quindi tutto il riffing e le sezioni ritmiche sono concepite come arrangiamenti di un brano orchestrale, che si tramuta inevitabilmente in un symphonic-progressive-metal che ha tantissimo di progressive, un sound metal… ma brani con strutture e andamenti assolutamente atipici. Pensa che per farmeli imparare, Michael al tempo mi consegnò gli spartiti delle parti vocali isolate e gli spartiti completi dei pezzi, così io studiai da quelli. E’ un progetto che sta richiedendo molto tempo per la giusta resa in studio, sopratutto dal lato strumentale, ma quando il disco verrà rilasciato, dubito passerà inosservato. E’ molto complesso e per nulla di facile ascolto, certo, ma c’è davvero TANTA musica là dentro. E vocalmente ci sono così tante dinamiche, così tanti colori e così tante sfaccettature che posso davvero sbizzarrirmi. Molti colori a causa dei generi proposti, non si prestano al sound dei Kaledon o degli Overtures, mentre nei FiT esce ancora dell’altro. Posso giocare tantissimo con la mia voce lavorando anche su toni molto più gravi oltre che sugli acuti che soprattutto nei Kaledon emergono come doveroso e posso giocare su tantissime sonorità che vanno dal morbido più morbido, all’aggressivo più violento. Se dovessi dare un’associazione relativa esclusivamente alla gestione delle vocalità, mi verrebbe in mente il lavoro che fa Devin Townsend, o gli Ayreon… solo che tutte le sfaccettature sono sulle mie spalle e non su quelle di più vocalist. Gli Overtures invece sono un progetto ormai ben definito ed in continua crescita. Sono la band con cui sono cresciuto come ho già detto, specchio della mia evoluzione musicale. Le recensioni di “Entering the Maze”, il nostro ultimo disco, sono state entusiasmanti e una grande soddisfazione personale mi è arrivata dalle tante critiche positive riguardanti la mia evoluzione vocale. Molti recensori che avevano già ascoltato “Rebirth” e “Beyond the Waterfall” hanno evidenziato una crescita importante sul piano vocale ed interpretativo, io non posso che sentirmi lusingato: l’ennesima dimostrazione che nella vita quando si suda, tanto e intensamente per raggiungere i propri obiettivi, i risultati arrivano. Gli Overtures hanno un forte messaggio da lanciare, i testi non sono narrazioni, ma hanno un contenuto attuale importantissimo. I Kaledon vogliono far viaggiare la fantasia dell’ascoltatore e trasportarlo in un mondo diverso, quasi a voler dimenticare le problematiche dell’attualità. E’ una musica che vuole svagare, dare sollievo, far vivere avventure. La realtà degli Overtures invece è più vera che mai. I testi vogliono cercare di riportare la testa su quelle che sono le reali difficoltà attuali e cercare il buono – quello vero – che si cela in noi. Ci sono viaggi introspettivi che vogliono far chiedere a chi ascolta se davvero ci si rende conto di cosa sta succedendo attorno a noi, messaggi che spronano a liberarsi degli ornamenti e delle montature che siamo a volte costretti a metterci addosso per vivere davvero di quello che conta… per far ricercare quello che davvero fa stare bene… ed il prossimo disco che stiamo per incidere sarà l’ennesimo passo avanti.
In sintesi:
– i FiT vivono in una dimensione vocale vastissima dove la ricerca sonora è il must;
– i Kaledon hanno un obiettivo narrativo e sonorità ben definite in un contesto power/moderno;
– gli Overtures hanno un messaggio estremamente attuale, puro, e un sound sempre più unico e personale.
Io vivo tre realtà totalmente diverse, dove davvero poco dell’una può finire nell’altra… e questo è, per me, magnifico.
Riesci a conciliare tutto questo con la tua attività di insegnante alla Scuola di musica di Gorizia, la Go Music e l’altra a Udine, cosa non facile. Come ti pianifichi il lavoro?
Ho fatto della musica la mia vita, e di musica ormai ci vivo: devo organizzarmi, non ho scelta, e in realtà ne sono felicissimo. Insegnare è una grande soddisfazione e vedere la crescita dei “miei” ragazzi, seguendo il loro percorso, appaga in una maniera unica. E’ ovvio che l’attività musicale con le band è qualcosa che richiede passione, dedizione e cura. Spesso, troppe persone non si rendono conto di quanto sacrificio sia necessario. Io ho imparato a gestirmi con tanta organizzazione e attenzione, e sfruttando al meglio il tutto. Lavoro praticamente tutti i pomeriggi, 6 su 7, insegnando a Gorizia la prima metà di settimana e a Udine la seconda metà. Spesso i sabati e le domeniche sono dedicati più che all’insegnamento ai lavori in studio, e proprio l’attività in studio la inserisco tra mattine (sempre dei weekend), sere -a volte anche settimanali- e domeniche. Quando le domeniche si riempiono, ovviamente rinuncio alla giornata di “ripresa”, ma ho l’infinita fortuna di lavorare nel settore che adoro… mai mi lamenterò di lavorare troppo. In sostanza, lavoro a parte, ho le mattine e le sere “libere”… lo scrivo tra virgolette perché è chiaro che il tempo che un’altra persona investirebbe nel proprio hobby, io lo investo nella mia musica… e da anni una sera a settimana è dedicata ad una prova fissa con gli Overtures mentre le mattine di norma sono i momenti in cui lavoro sui brani, scrivo, arrangio e lavoro sulle mie registrazioni. Quando registro? Di norma sfrutto i “buchi”. Può capitare che in una giornata per un allievo assente, o perché non sono state fissate lezioni per incompatibilità di orario, o semplicemente perché non ci sono registrazioni di esterni in programma, saltino fuori 2 ore libere qua, o due ore libere là. Se ho materiale, quello è il momento in cui mi lancio in sala di incisione… altrimenti ne approfitto per studiare ed esercitarmi o nel canto o al pianoforte. Tra l’altro, al piano mi ci metto praticamente ogni 10 minuti liberi che saltano fuori tra le varie lezioni.
Insegnare a una scuola di musica è anche, in un certo senso, missione: infondere un messaggio alla new generation di una società post-globalizzata allo sbando, in cui la fanno da padrone i mille lustrini delle apparenze. Quali consigli e raccomandazioni ti senti di dare? Che cosa manca al panorama musicale italiano e che cosa andrebbe migliorato e modificato?
Insegnare è una responsabilità, è vero, ed è una missione che non prenderò mai sottogamba. Aggiungici che i problemi che hai evidenziato sono proprio quelli che mi hanno portato a scrivere i testi di “Entering the Maze” per come sono usciti. In realtà è un percorso che proseguirà anche nel prossimo disco degli Overtures… per cui, credimi, mai domanda fu più azzeccata.
Oggi purtroppo quello che vedo è una grandissima carenza di determinazione. Siamo nell’epoca del fast-food della musica: tutti vogliono raggiungere il proprio obiettivo subito, senza rendersi conto dell’immensa fatica, dei tantissimi sacrifici, della dedizione e della cura di cui la musica ha bisogno, se la si vuole affrontare seriamente. Ho allievi che si iscrivono “perché vogliono partecipare a un talent”, ho allievi che si iscrivono “perché tra poche settimane devono incidere un disco” e non hanno mai preso lezioni prima… ho allievi che non si rendono nemmeno conto di ciò che dicono quando affermano che si sono iscritti ai miei corsi perché “vogliono vivere di musica e fare carriera”. E la cosa assurda, è che sono tutte frasi vere, che spesso raccontate a colleghi e amici fanno sembrare il tutto una barzelletta. Alla stessa maniera quando lavoro in studio sono sempre di più le persone che si appoggiano al “tanto me lo metti a posto tu, no?”. Ho avuto batteristi che hanno registrato dischi in un take perché “non avevano nessuna voglia di ripetere la canzone”, e poi mi hanno fatto dannare per ore con l’editing aggiustando cose che nemmeno sarebbe giusto mettere a posto. Ma ci rendiamo conto di dove siamo arrivati? E la cosa triste è che spesso devo stare al gioco, perché purtroppo non posso permettermi di rinunciare al lavoro. La ricerca dell’esecuzione corretta, la voglia di migliorarsi, l’ambizione di raggiungere determinati livelli, sono cose che sempre di più si stanno perdendo. Per me, per il mio percorso, per il tipo di realtà che ho avuto modo di vedere (per fortuna), certe situazioni sono davvero imbarazzanti, si guarda solo al risultato finale, senza un minimo di dignità o vergogna nell’affrontare il COME! Ho studiato teoria musicale, ho studiato e continuo a studiare pianoforte perché reputo necessaria la conoscenza di uno strumento in maniera completa – per un cantante – per mille motivi che richiederebbero ancora più righe per essere spiegati. Mi sono applicato e ho sudato per imparare a suonare almeno un po’ tutti gli strumenti che ho avuto per le mani, per comporre, per capirne le meccaniche e poter essere un musicista più completo, per non parlare della dedizione che negli anni ho messo sulla cura e il miglioramento della mia voce e della mia tecnica. Se medici e architetti avessero il pressappochismo che moltissimi musicisti hanno oggi, non avremmo tetti e gli ospedali sarebbero l’ultimo luogo a cui rivolgersi quando si sta male. Come insegnante, il mio primo obiettivo è proprio cercare di far comprendere che il percorso che si sceglie di fare quando ci si approccia alla musica, è un percorso lungo e faticoso. Se lo è per chi è predisposto, figurarsi per chi ha difficoltà. La tecnica, la teoria, gli argomenti trattati nelle mie lezioni sono un discorso a parte, la mia competenza non sarò certo io a giudicarla né è il luogo dove discuternee. Di certo, chi inizia un percorso con me, sarà portato ad affrontarlo in un’ottica ben definita e una condivisione di esperienze che mettano subito in chiaro quanto lavoro c’è da fare sulla propria persona oltre che sulla propria tecnica, senza nascondere le difficoltà del cammino. Anzi, laddove ne ho possibilità, spesso cerco di supportare ed aiutare per quanto posso anche al di fuori del contesto “canto”. E per cronaca, non mi sono mai trattenuto dal dire ai fast-fooddari “se vuoi continuare a ragionare così, fallo da solo”.
Stai usando il sistema di monitoring per il soundcheck basato sulle più moderne tecnologie informatiche. Puoi parlarcene? Lo utilizzerai anche con i Kaledon?
Mi sento stalkerato, ma apprezzo molto la domanda! In realtà quello che sto usando non è un sistema limitato al monitoring, ma si estende anche all’intera gestione del sound live della band.
La decisione di passare a questo metodo di lavoro è stata frutto di un ragionamento durato anni, volto ad ottimizzare il bilanciamento tra resa sonora, ascolto on stage e necessità di velocità nei cambi palco, oltre alla mia costante volontà di disturbare il meno possibile le altre band in fase di soundcheck e di cambio palco. Erano davvero anni che assieme a Gabriele Gritti – il fonico degli Overtures ndr- stavamo ragionando come band ad una soluzione di questo tipo. La tecnologia moderna, oggi, ci ha permesso di raggiungere i nostri obiettivi, e prendendo spunto da band come Messugah, Devin Townsend e Destrage, informandoci, abbiamo deciso di inserirci in questa linea.
Come funziona il tutto? Bisogna combinare l’utilizzo di in-ear monitors, un mixer digitale con possibilità di controllo wireless (e possibilmente a rack) e qualsiasi sistema capace di isolare il segnale degli amplificatori (o in alternativa, utilizzare testate o simulatori di segnale per basso e chitarre). A differenza di quanto alcuni “critici” del settore pensano, infatti, non è assolutamente vero che per utilizzare questo tipo di sistemi si debba rinunciare alle valvole. Certo, strumenti come il Fractal o il Kemper, così come i- Pod HD, sono ottimi simulatori che hanno molte comodità per i chitarristi, e forniscono un segnale pronto per essere inserito in un mix. Ad esempio Marco Falanga utilzza una testata ENGL valvolarissima, che tramite un CabClone Mesa-Boogie non perde assolutamente il suo calore valvolare, ma evita i problemi di microfonatura.
Il mixer a rack che utilizziamo viene controllato tramite tablet o smartphone, ed avendo 6 uscite ausiliarie oltre al main output, ci permette di regolarci indipendentemente i livelli di ascolto nei nostri in-ear monitor.
La testata di Marco passa per il CabClone ed arriva direttamente al Mixer, così come la mia voce, il SanSamp che utilizza Luka Klanjscek ed i samples. Il mixer è predisposto anche per gestire eventualmente il nostro set di batteria, ma nel caso in cui ci trovassimo ad un festival con un backline fornito e già microfonato indipendentemente, andremmo semplicemente ad aggiungere i nostri segnali al mix globale.
In pratica:
– i nostri ascolti li autogestiamo tramite gli in-ear monitor: essendo sempre uguali, una volta fatte le prime regolazioni in sala prove, ovunque andiamo sentiamo alla stessa maniera.
– al mixer abbiamo la possibilità di fornire o un nostro “premix” che si può assestare in qualsiasi momento tramite l’ipad, da aggiungere alla batteria residente; o i nostri segnali indipendenti tramite degli splitter, così chi è dietro al mixer può gestirci come qualsiasi altra band; o il nostro mix completo nel caso in cui ci sia il nostro set di batteria.
Essendo tutto precollegato, noi non dobbiamo fare altro che salire sul palco ed accendere in-ear monitor e collegare gli strumenti. Non abbiamo bisogno di spie per cui non rompiamo le scatole a nessuna band. Abbiamo un mix indipendente che quindi anche in caso di soundcheck di altri gruppi prima o dopo il nostro, non viene alterato. Non dobbiamo montare nulla se non un rack che va semplicemente collegato alla corrente, quindi, un nostro cambio palco + soundcheck dura tra i 5 e i 10 minuti al massimo, considerando che avendo un sound già lavorato precedentemente in studio, va solo ritoccato e ottimizzato, non costruito da 0. Se lo userò anche coi Kaledon? Dubito gli darò scelta, dovranno.
Una tua frase che hai usato sui social network è: ”il rock non si ferma, mai”. Che cosa intendevi dire esattamente?
Adesso mi sento stalkerato davvero. Sì, il rock non si ferma, mai. In realtà è una frase che può sembrare buttata lì, ma ha un significato piuttosto profondo. L’ho scritto di recente quando ho postato un aggiornamento sulle situazioni band. Proprio mentre scrivo queste risposte, sto registrando il nuovo disco dei Future is Tomorrow, sto per entrare in studio con gli Overtures per il quarto album di cui sto completando le preproduzioni e nel frattempo è in release la ristampa di “Chapter 4: Twilight of the Gods” dei Kaledon, per il quale ho ri-registrato anche io le parti vocali di due brani, “Holy Water” ed “Into The Fog”. In realtà, in questi mesi ho anche ri-registrato altro materiale dei Kaledon (“Surprise Impact” è stato anche pubblicata su Youtube), ho partecipato come ospite ad un disco di un amico che è ancora in fase di lavorazione e sempre con i Kaledon, i progetti sono molti. Ci sono diversi concerti in programma con tutte e due le formazioni e anche se siamo in piena estate, io sto continuando ad insegnare e a studiare! Il rock non si ferma perché non può fermarsi, e questo si ricollega al discorso fatto sull’insegnamento. La musica è qualcosa di vivo, per fare il musicista serve avere le batterie sempre cariche, anche a fine giornata, serve essere dinamici, pronti a spostarsi, e avere la voglia di affrontare ogni esperienza possibile… reinventarsi, avere voglia di crescere. E chi ha tempo di fermarsi? Se poi si sceglie di percorrere questa strada in un contesto come quello dell’heavy metal, dove per mille motivi tutto è ancora più complesso, bisogna davvero possedere uno spirito di sacrificio fortissimo e una voglia di fare infinita.
Che significato ha assunto la musica nel corso della tua vita? Come sei riuscito a sviluppare e curare le tue potenzialità, in un ambiente pieno di difficoltà come quello italiano?
Io sono musica, l’ho detto più e più volte e non smetterò mai di ripeterlo. Siamo un circolo di energia che si autoalimenta. Facendo musica trovo la forza di fare musica. Da piccolo ero quello che si metteva le cuffie e nei viaggi si perdeva nel suo mondo. Ricordo che già da bambino ascoltavo in maniera per nulla superficiale i dischi che mi piacevano. Mio padre aveva uno stereo in casa e la sera prima di andare a dormire invece di guardare i cartoni animati, ascoltavo i suoi vinili e CD, e già quella volta mi sgridavano perché tenevo il volume alto nelle cuffie, ma senza volume non sentivo “le vibrazioni”.
Più crescevo più imparavo ad ascoltare i dettagli, e ho iniziato ben presto a cercare di concentrarmi nel percepire con attenzione non solo il brano per intero, ma ogni singolo strumento e i giochi delle armonie delle band che mi piacevano. Alle medie ho iniziato ad andare a letto con gli auricolari, ed è un’abitudine che anche oggi quando dormo solo continuo ad avere. Corro con gli auricolari, nuoto con gli auricolari… in macchina sono pieno di dischi di band emergenti e amiche. E man mano, crescendo, il mio interesse nella musica e in tutte le sue forme è aumentato sempre più. Ho studiato pianoforte, ho studiato da autodidatta chitarra, basso… ho imparato ad accordare i pianoforti, ho smontato e aggiustato vecchie tastiere. Ho provato sempre con grandissimo interesse a mettere le mani su tutti gli strumenti che mi passavano per le mani, dalla cornamusa al flauto, dal violino all’armonica. Non li so assolutamente suonare tutti, ma ne ho voluto comprendere il funzionamento. All’università mi sono iscritto al DAMS, imbattendomi quindi anche nella storia della musica, imparando a leggere i neumi e la musica antica, studiando quella contemporanea e l’evoluzione della tecnologia musicale. Mi rendo conto di quanto non abbia mai detto “non ho nessuna voglia di ascoltare o o leggere questo o quell’altro”. Ad oggi mi rendo conto che conosco (non nel senso di “so chi sono”, ma nel senso di ho ascoltato e analizzato) Morricone e Stefani Germanotta, i Dimmu Borgir e Stockhausen, Bach e Battisti, il gregoriano e Devin Townsend. Suono pezzi di Claude-Achille Debussy e canto gli Helloween. Ho lavorato sul restauro audio e analizzato partiture di John Williams, ho una felpa degli Offspring e ho cantato più volte l’Ave Maria di Schubert, ho insegnato a lavorare su brani di Norah Jones e dei Queen, ho cantato a squarciagola sotto ai palchi dei Maiden e apprezzato esibizioni di musica antica. Saprei riconoscere uno spartito di Vivaldi, e ho imparato brani mai registrati dagli spartiti di De Leitenburg.
In tutto questo, ho scelto il Metallo.
Come sono riuscito a svilupparmi e migliorarmi, tanto più in un ambiente come quello italiano? Credo proprio che la risposta sia qui sopra. Con tanto interesse, tanta voglia di crescere, un’autocritica infinita (ad oggi ascoltandomi inorridisco ancora), un’apertura mentale senza limiti e la consapevolezza che senza dare il 150% come minimo, e il 200% come consigliato, col 100% non si va da nessuna parte, per cui figuriamoci con il 90%. Ah, sì! …e prendendo una posizione e percorrendo la propria strada con determinazione. A promettere le cose sono bravi tutti, a porsi gli obiettivi anche. Chi davvero ce la fa, però, è chi si pone un obiettivo e con coerenza, determinazione e senza vergogna della posizione presa, andando dritti verso dove si vuole arrivare, senza fermarsi di fronte a critiche e rialzandosi quando si cade. Con queste convinzioni e questa mentalità, anche io spero di raggiungere gli obiettivi che mi sono posto!
Grazie Michele per la tua disponibilità e per il tempo che hai dedicato a Metalrock
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