Geoff Tate: la musica rappresenta le mie emozioni

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OPERATION: MINDCRIME – INTERVISTA ESCLUSIVA A GEOFF TATE •

La porta del tour-bus si apre, delle piccole scale ci conducono al piano superiore, in un salottino privato, dove nella penombra, seduto, c’è lui: Geoff Tate. Ci troviamo a Roma e precisamente al Traffic, dove il 3 dicembre scorso il famoso singer americano ha tenuto un fantastico concerto con la sua band Operation: Mindcrime (il cui report lo potete leggere qui).
Sono quasi le 22 (neanche a farlo apposta uno dei titoli presenti su “Operation: Mindcrime” è proprio “Waiting For 22”, ma lì si parlava di età – n.d.r.), quindi non abbiamo molto tempo a disposizione prima che inizi il loro show, ci accomodiamo sui divanetti di fronte a lui e dopo averci accolto e salutato comincia a rispondere alle nostre domande con la sua voce calda, profonda, equilibrata.

Ciao Geoff, benvenuto a Roma. E’ un onore per noi poter essere qui. Credo che non ci siano bisogno di presentazioni, tutto il mondo conosce Geoff Tate. Ci puoi però dire come è nato il progetto Operation: Mindcrime?
Un po’ più di un anno fa mia moglie Susan ed io decidemmo che avevamo bisogno di prenderci una vacanza, di ricaricare le batterie, e così siamo andati in Spagna ed abbiamo percorso il Cammino di Santiago de Compostela ed è stato un meraviglioso esercizio di cambiamento di vita. Durante il cammino, per il quale abbiamo impiegato circa un mese, ho scritto la storia per la trilogia che inizia con questo album, “The Key”. Era qualcosa a cui pensavo da un po’ e durante il viaggio la storia è venuta fuori, l’ho scritta… quando sono tornato a Seattle ho iniziato a lavorare alla musica.

Te ne sei occupato tu in prima persona?
Inizialmente sì, ho creato io i brani, ma poi con il supporto degli altri membri della band abbiamo aggiunto dei particolari.

A tal proposito: puoi dirci come hai scelto i compagni da portare con te in questo nuovo “viaggio”?
Beh… Kelly Gray, Randy Gane ed io facciamo musica insieme ormai da quasi quarant’anni, quindi era ovvio considerare loro per questo progetto. Abbiamo portato avanti le cose finché abbiamo realizzato che eravamo pronti per registrare e così sono saliti a bordo John Moyer, Brian Ticky e Simon Wright per dare il loro contributo e tutto in realtà è accaduto molto naturalmente. Io volevo che fosse così e questo è un bellissimo progetto di cui far parte, perché c’è collaborazione, come autore posso confrontarmi con loro e chiedere il loro parere su quello che scrivo e loro spesso sono d’accordo con me, ma propongono qualche loro personale aggiustamento e mettono e loro idee.
Abbiamo iniziato il progetto dalla storia che avevo scritto, abbiamo discusso insieme con gli altri su come quelle sensazioni ed emozioni dovessero essere rappresentate in musica, su come i brani avrebbero dovuto essere, ci siamo confrontati su quale dovesse essere il sentimento rappresentato dal ogni brano… la frustrazione, l’indecisione, o la paura… ed abbiamo iniziato a mettere in musica tutte le emozioni che dovevamo rappresentare nel modo che ci sembrava potesse al meglio evocare quelle stesse emozioni.

Credo che le emozioni rappresentino il filo conduttore di tutta la tua musica: è così?
Sì, assolutamente, cerco sempre di tradurre in musica le emozioni che i testi descrivono.

Parliamo della scelta del nome della band: perché proprio Operation: Mindcrime?
Per due motivi. Ho passato la maggior parte della mia carriera a firmarmi “Queensrÿche” e dunque il nome “Queensrÿche” è più conosciuto del mio, e a questo punto della mia carriera è importante che i sostenitori della mia musica possano trovarmi facilmente e molti di loro non conoscono il mio nome, ma quello dei Queensrÿche , così come conoscono bene “Operation: Mindcrime”. Quindi ho scelto questo nome perché era noto, familiare, ma anche perché volevo dare un’idea del tono che la musica che stavo per creare avrebbe avuto, basata dunque sullo storytelling e su una musica di tipo concettuale. E’ una cosa molto difficile cercare di racchiudere in una parola o in una frase quello che fai dandoti un nome.

Ci hai detto che “The Key” è l’inizio di una trilogia, ma puoi dirci qualcosa in più su questo primo album? Come hai deciso che questa specifica parte della storia doveva essere racchiusa nel primo disco?
Ogni storia ha bisogno di un inizio e “The Key” è l’inizio di questa storia, quello che fa è iniziare ad introdurre e presentare i personaggi e quello che accade loro. Parla di quattro persone che si mettono insieme e creano un algoritmo che ha la capacità di cambiare il modo in cui le persone percepiscono il mondo, una sorta di spostamento del punto di vista sulla realtà. Credo che la maggior parte di noi sia d’accordo nel dire che la realtà è qualcosa che apprendiamo, cresciamo con i nostri genitori che attribuiscono un nome a ciascuna cosa. Un altro modo per dirla è che veniamo programmati : “questo è un divano, questo è un autobus… il cielo… gli alberi… un sasso..”. Abbiamo una definizione per ogni cosa, ma non abbiamo una spiegazione capace di dirci cosa sia effettivamente la realtà… dunque questi quattro personaggi scoprono un algoritmo di programmazione e generano un software capace di portare ad una nuova percezione della realtà, mai scoperta prima, che porta con sé un certo numero di implicazioni… qualcosa che ha a che fare con la fisica quantistica. Cosa accadrebbe se non avessimo bisogno di percepire di viaggiare attraverso lo spazio? Se bastasse solo pensare di essere in un posto? Dunque i quattro personaggi iniziano a pensare e a parlare di tutte le possibili implicazioni e nasce un conflitto, perché alcuni sostengono di dover implementare questo algoritmo per venderlo ai giganti della terra e ricavarne moltissimo denaro. Altri nel gruppo invece vedono l’importanza di questa scoperta per tutto il genere umano e vorrebbero condividerlo e distribuirlo a tutti e il secondo album partirà proprio da questo conflitto.

E’ un po’ il discorso del potere e dei suoi schiavi….
Sì, l’ultimo brano dell’album infatti parla di come l’umanità tenda a ripetere sempre gli stessi errori e a percorrere lo stesso sentiero all’infinito. E l’intera trilogia è una sorta di puzzle, una serie di misteri in cui non tutto è rivelato, ci sono dei richiami tra gli album in termini di suoni o parole o frasi ricorrenti che l’ascoltatore può riconoscere… e mettendo insieme i pezzi è possibile leggere qualcosa di più, qualcosa in più viene rivelato…

Se ti chiedessero di scegliere un brano (della tua intera carriera) che sia veramente rappresentativo della tua persona, quale sceglieresti?
E’ davvero difficile, perché ogni brano rappresenta a suo modo i miei bisogni, le mie emozioni e i miei pensieri del momento e ci sono molti brani dei quali sono veramente orgoglioso. Vedi, scrivere canzoni è una sorta di viaggio e quindi ti trovi a provare cose differenti lungo il cammino: qualche volta raggiungi la meta, ma altre volte no. Puoi ricominciare e provare qualcos’altro in modi diversi, registri la stesso brano in modi nuovi, è una sorta di processo di apprendimento, è un bellissimo esperimento. Io mi perdo nella musica. Qualche volta mi chiedono: “Hai visto cosa è accaduto sotto al palco durante lo show?” – e io dico no, sono completamente assorbito nel momento, nella musica…

Raccontaci qualcosa di quando eri ragazzo: quali erano i tuoi idoli musicali? Da dove hai tratto l’ispirazione per iniziare a cantare?
Ho iniziato molto giovane, avevo 9 anni, e ho sentito alla radio “Somebody To Love” dei Jefferson Airplane, e sentii quel suono della chitarra elettrica riprodurre quel riff così sinuoso e fico e chiesi a mia madre: “Cos’è?” – e le mi rispose che era una chitarra! Dissi che volevo imparare a suonarla, lei mi disse che andava bene, ma che dovevo iniziare dal pianoforte. Sono contento di quel consiglio perché aveva ragione. Iniziai dunque col piano e non suonai mai la chitarra!
Ho suonato la tromba ed ero nell’orchestra della scuola, e quando avevo credo circa 15/16 anni, ho scoperto davvero la musica progressive con band come Yes, Genesis, Pink Floyd, Supertramp e poi ho iniziato a suonare di più la tastiera ispirato dagli Emerson Lake & Palmer. Il batterista della mia band di allora ed io (con una simpatica risata autoironica confessa che questo è davvero “nerdy”!) costruimmo un sintetizzatore, era circa il ’71/’72 e il sintetizzatore era qualcosa di nuovo, lo usavamo per fare i nostri solo su pezzi come “Lucky Man” degli Emerson Lake and Palmer. E poi ho iniziato a suonare con un sacco di band differenti e a cantare sempre di più.

E il tuo primissimo live?
Oh… questo ci riporta indietro al discorso della chitarra! Avevo deciso, come dicevo prima, di iniziare a suonare la chitarra e cercai di imparare, ma non avrei mai suonato bene! Comunque acquistai una chitarra acustica… mi esercitavo… imparai degli accordi e cercai di rifare un brano degli Emerson Lake & Palmer (lo canticchia perché gli sfugge il titolo – “Still You Turn Me On” n.d.r.). Dovevo esibirmi in uno spettacolo estivo all’aperto, ho indossato il mio costume di scena, mi sono sistemato i capelli, ho afferrato la chitarra e sono salito sul palco e quando sono andato per suonare il primo accordo… non ricordavo assolutamente nulla! Confesso che la chitarra era come una banana nelle mie mani! (risate generali). L’ho messa giù e ho cantato la canzone a cappella, è piaciuto a tutti e mi hanno applaudito… sono uscito e mentre camminavo ho detto a me stesso: “Ok, sarò un cantante!” (ride).
Ed è quello che mi succede ancora oggi. Quando devo suonare uno strumento devo concentrarmi molto e prestare attenzione, mentre cantare è molto facile per me, riesco a farlo senza pensare. Naturalmente in studio è diverso perché puoi ripetere e riprovare tutte le volte che vuoi, ma dal vivo…

E allora non resta che andare ad assistere allo show di questa sera, visto che ormai è quasi giunto il momento. Grazie della tua disponibilità e della tua simpatia, Geoff.
(sorseggiando un calice del suo vino con la moglie, che nel frattempo è sopraggiunta) Grazie a voi!

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elaborazione video 
Federica Borroni

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